L’avvocato non è un mero portavoce del cliente.
In considerazione della sua funzione (artt. 1, co. 2, L. n. 247/2012 e 9, co. 1, cdf), l’avvocato non può ridursi al ruolo di mero nuncius del cliente, di cui infatti deve filtrare richieste e desiderata (art. 23, co. 4 e 5, ncdf), allineandoli -ove divergenti- ai canoni imposti dal corretto agire professionale, tra cui quello previsto nell’art. 65 ncdf (già art. 48 cdf), per il quale l’intimazione di una qualsiasi azione o iniziativa non è più lecita e si trasforma in minaccia, in quanto tale sanzionabile disciplinarmente, quando l’avvocato prospetti di avviare azioni o di prendere iniziative sproporzionate ed eccessive (Nel caso di specie, il professionista invitava il collega di controparte a transigere sul proprio compenso, riducendo le sue pretese economiche azionate in via monitoria, giacché altrimenti avrebbe presentato non meglio precisati esposti alla Procura della Repubblica, alla Agenzia delle Entrate, alla Guardia di Finanza, al Ministero dell’Economia e all’Ordine degli Avvocati. Sottoposto a procedimento disciplinare e quindi sanzionato dal Consiglio territoriale, il professionista proponeva impugnazione, sostenendo a propria discolpa che avrebbe agito quale “semplice ambasciatore” del cliente. In applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha rigettato il ricorso).
Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Picchioni, rel. Baffa), sentenza del 22 dicembre 2017, n. 221