Analisi dell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in tema di riparto della competenza in materia di lavoro nell’ambito di una procedura concorsuale
Introduzione
Il tema del riparto della competenza tra Giudice del Lavoro e Giudice del Fallimento su domande giudiziarie rientranti nella materia del lavoro in seno ad una procedura concorsuale ha conosciuto, nella giurisprudenza di legittimità dell’ultimo ventennio, soluzioni a tratti contrastanti.
Sulla questione v’è da annotare una significativa tendenza ad ampliare l’ambito di cognizione del Giudice del Lavoro, a discapito della competenza del Giudice del Fallimento, anche in parziale difformità al tenore letterale del vigente impianto normativo.
Gli articoli del r.d. 267/1942 (Legge Fallimentare) e le analoghe disposizioni normative introdotte con il d.lgs. 14/2019 del (Codice della Crisi d’Impresa), che disciplinano la competenza del Giudice della procedura concorsuale, sembrerebbero suggerire la volontà del Legislatore di attribuire a quest’ultimo la competenza a decidere in merito a tutte le azioni giudiziarie derivanti dal Fallimento e dalla Liquidazione Giudiziale.
Secondo quanto previsto dall’art. 24 l. fall., il Tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente, infatti, a giudicare su tutti i procedimenti giudiziari relativi alla procedura concorsuale che incidono sul patrimonio del fallito.
Detta previsione normativa è stata sostanzialmente recepita nell’art. 32 C.C.I., con attribuzione al Tribunale delle Imprese che ha dichiarato l’apertura della liquidazione giudiziale della competenza a decidere in merito alle azioni da essa derivanti.
Altresì, l’art. 52 l. fall e il novellato art. 151 C.C.I. statuiscono la devoluzione esclusiva, al Tribunale che ha dichiarato l’apertura della procedura concorsuale, dell’accertamento dei crediti ancorché muniti diritto di prelazione o prededucibili.
Da tali premesse, parrebbe che la vis attractiva del Tribunale che ha dichiarato l’apertura della Procedura Concorsuale prescinda dalla materia del contendere.
In realtà, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità dell’ultimo ventennio, occorrono alcune precisazioni in punto di riparto della competenza in caso di azioni giudiziarie in materia di lavoro in seno ad una procedura concorsuale.
La giurisprudenza fino alla Cassazione 19308/2016
È innegabile che dalla lettura degli artt. 24, 52 e 92 della legge fallimentare, possa ravvisarsi, in favore del foro concorsuale, un’attrazione della competenza a statuire su tutte le questioni che abbiano come fine ultimo il riconoscimento del credito in seno all’accertamento dello stato passivo.
Partendo da tale postulato e al fine di tutelare la par condicio creditorum, le pronunce di legittimità più risalenti, infatti, tendevano a riservare al Giudice Fallimentare tutte le controversie che avessero, come fine ultimo, l‘accertamento di un credito concorsuale.
Nello specifico, gli Ermellini, con le numerose pronunce emesse, erano giunti a suddividere le competenze tra Tribunale Fallimentare e Tribunale del Lavoro con le seguenti modalità.
Al Giudice Fallimentare erano devoluti i procedimenti relativi all’accertamento dei crediti relativi al rapporto di lavoro e, più in generale, dei diritti del lavoratore, quando propedeutici all’ammissione dei suddetti crediti nello stato passivo della procedura concorsuale; così, ad esempio, la domanda volta all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento è stata ritenuta dai Giudici di legittimità di competenza del Tribunale Fallimentare, avendo carattere strumentale rispetto alla indennità pecuniaria perseguita dall’attore (Cass. Lavoro n. 9306/1996).
Al Giudice del Lavoro, diversamente, erano demandati i giudizi di cognizione riguardanti le domande di mero accertamento non finalizzate ad una successiva ammissione allo stato passivo o volte all’ottenimento di una sentenza costitutiva quali, ad esempio, l’accertamento del rapporto di lavoro subordinato senza una conseguente richiesta economica di natura retributiva o di risarcimento dei danni (Cass. 11439/2004), ossia quelle domande non configurabili come mere pretese creditorie (Cass 7129/2011).
Unica eccezione alla ripartizione così delineata, consisteva nell’azione proposta dinanzi al Giudice del Lavoro per ottenere, a seguito dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento del lavoratore, la reintegra sul posto di lavoro e la condanna generica del datore al risarcimento del danno.
Infatti, secondo la vecchia formulazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (In vigore dal 26 maggio 1990 al 17 luglio 2012), l’eventuale ristoro pecuniario del lavoratore non era oggetto di autonoma valutazione del Giudice del Lavoro (come, invece, nella successiva formulazione), essendo predeterminato dalla norma dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione.
In particolare, con la pronuncia n. 19308/2016 i Giudici della Corte di Cassazione della Sezione Lavoro stabilivano la competenza del Tribunale del Lavoro in merito alle domande di reintegra del lavoratore sul posto di lavoro, ancorché correlate da una richiesta generica di condanna del datore di lavoro.
Tale orientamento era sicuramente influenzato da due ordini di ragioni.
Secondo la Corte Suprema, l’attribuzione esclusiva al Giudice del Lavoro della statuizione sull’illegittimità del licenziamento, sulla domanda di reintegra e sulla conseguente condanna generica del datore di lavoro, in luogo della ripartizione delle singole fasi con il Giudice del Fallimento, consente, infatti, di ottenere una pronuncia definitiva in tempi sicuramente più brevi.
La domanda, peraltro, così come sopra delineata, coinvolge interessi di natura squisitamente extra-concorsuale, avendo quale presupposto primario l’interesse del lavoratore alla sua corretta qualificazione all’interno dell’impresa fallita, sia per un’eventuale (per quanto remota) ripresa dell’attività lavorativa, sia per tutelare i propri interessi contributivi e previdenziali e, quindi, estranei all’esigenza della par condicio creditorum.
Questo il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità sino alla sentenza n. 19308/2016.
L’attuale orientamento della Corte di Cassazione Sezione Lavoro
A partire dal 2017, le pronunce emesse dalla Suprema Corte vedono una progressiva erosione della competenza del Giudice fallimentare in favore del Giudice del Lavoro.
Con la sentenza n. 15066 del 22 giugno 2017, infatti, è stato stabilito il principio secondo il quale, durante la pendenza della procedura concorsuale devono ritenersi “improponibili o improseguibili temporaneamente le domande dirette ad ottenere una condanna pecuniaria del datore di lavoro, ancorché accompagnate da richieste strumentali di accertamento o costitutive”. Di converso, devono essere proposte o proseguite davanti al Giudice di Lavoro le domande non aventi ad oggetto la condanna del datore di lavoro al pagamento di una somma di denaro. Tra queste può ricomprendersi sicuramente l’impugnativa di licenziamento che, ai fini dell’ammissione allo stato passivo, presuppone che il Giudice del Lavoro si sia pronunciato sia sull’an che sul quantum.
In particolare, pur facendo salvi i principi dettati dall’art. 24 l. fall., detta pronuncia ne limita l’operato statuendo che, laddove si richieda l’emissione una sentenza di mero accertamento o costitutiva, la relativa azione deve essere radicata dinanzi al Giudice del Lavoro.
Proseguendo nell’esposizione del ragionamento, la pronuncia giunge alla conclusione che, qualora venga statuita l’illegittimità del licenziamento con conseguente tutela risarcitoria del lavoratore, il Giudice adito è tenuto anche fornire la quantificazione del risarcimento, sottraendone la competenza al Giudice del Fallimento.
Secondo la Corte, infatti, l’eventuale divisione delle competenze tra le Sezioni del Lavoro e Fallimentare comporterebbe un eccessivo allungamento dei tempi utili ad ottenere il ristoro del lavoratore dell’impresa fallita, oltre che un’evidente disparità di trattamento rispetto al lavoratore dell’impresa in bonis.
In buona sostanza, la Cassazione stabilisce il discrimine secondo il quale il Giudice del Lavoro può arrivare a quantificare il risarcimento dovuto al lavoratore ma non può spingersi a condannare il Fallimento al pagamento della somma.
La tendenza all’ampliamento delle competenze del Giudice del Lavoro delineata dai Giudici della Cassazione trova conferma anche con la pronuncia n. 522 dell’11.01.2018.
Infatti, nello statuire sull’illegittimità di un licenziamento intimato da un curatore fallimentare, viene riconosciuta la competenza del Giudice del Lavoro, anche laddove l’attività lavorativa risulti sospesa ai sensi dell’art. 72 l. fall.
In sostanza, qualora venga accertata l’illegittimità del licenziamento intimato dal curatore fallimentare, il lavoratore ha diritto all’ammissione al passivo della procedura concorsuale per i crediti risarcitori conseguenti.
Da ultimo, con la sentenza n. 16443 del 21.06.2018, la Corte di Cassazione ha voluto meglio delineare le competenze tra Giudice del Lavoro e Giudice del Fallimento, nel caso in cui sia necessario accertare l’entità del risarcimento del danno da licenziamento a seguito dell’entrata in vigore della l. 92/2012 (Legge Fornero).
La Corte, in linea con l’orientamento delle più recenti pronunce, respinge la tesi secondo la quale l’accertamento del quantum sia estraneo alla competenza del Giudice del Lavoro.
In sostanza, la Corte approda a ricostruire le competenze attribuibili ai due differenti Giudici, ripartendole con le seguenti modalità.
Al Giudice del Lavoro spetta il giudizio su qualsiasi controversia riguardante lo “status di lavoratore” e, quindi, il diritto alla legittima instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto lavorativo, nonché la sua corretta qualificazione e qualità.
Viceversa, al Giudice del Fallimento, è rimessa la verifica e la qualificazione dei crediti dipendenti dal rapporto lavorativo esclusivamente alla partecipazione in concorso con gli altri creditori.
Infatti, secondo il ragionamento della Suprema Corte nell’ultima sentenza richiamata, l’unico titolo idoneo ai fini dell’ammissione allo stato passivo è dato dall’accertamento del Giudice Fallimentare, anche in conseguenza di domande strumentali di mero accertamento o costitutive.
Tale accertamento, tuttavia, avendo una valenza esclusivamente endoconcorsuale, non può riguardare l’accertamento del credito, ma deve limitarsi alla sola verifica del diritto alla partecipazione al concorso con gli altri creditori.
In sostanza, i Giudici di Legittimità, ritengono che vi sia una differenza di petitum e causa petendi tra le domande proposte. Nel caso del Giudice del Lavoro rileva l’interesse del lavoratore alla tutela della sua posizione all’interno dell’impresa, oltre che alla tutela dei propri diritti previdenziali e patrimoniali, estranei alla par condicio creditorum. Diversamente, nel caso del Giudice del Fallimento, rileva l’accertamento dei diritti patrimoniali alla partecipazione al concorso al patrimonio del fallito.
Conclusioni
Dalla valutazione delle norme e delle pronunzie richiamate, si può facilmente evincere come la giurisprudenza abbia inteso fornire una nuova interpretazione della vis attractiva data dall’art. 24 l. fall., reinterpretandola alla luce delle riforme intervenute in materia di diritto del lavoro.
Non deve dimenticarsi, infatti, che il testo originario della legge fallimentare risale al 1942 e, nonostante gli interventi di riforma del Legislatore, il suo tenore letterale risulterebbe anacronistico rispetto al tessuto normativo vigente, soprattutto in materia di lavoro.
Peraltro, l’interpretazione delineata dalla Cassazione, appare in linea col principio più volte ribadito nella disamina delle pronunce richiamate, secondo cui esulano dalla competenza del Giudice Fallimentare tutte quelle domande che non prevedono un accertamento endoconcorsuale, non essendo dirette principalmente alla soddisfazione sull’attivo del fallimento.
Enrico Maria Rotondo – Francesco Giglioni