La deontologia dell’avvocato europeo

Avv. Prof. Federica Federici

Il Codice Deontologico Forense stabilisce le norme di comportamento che l’avvocato è tenuto ad osservare in via generale e, specificatamente, nei suoi rapporti con il cliente, con la controparte, con altri avvocati e con altri professionisti. Anche tramite il rispetto di tali norme di comportamento, l’avvocato contribuisce all’attuazione dell’ordinamento giuridico per i fini della giustizia.

Secondo un’impostazione tradizionale, ancor oggi condivisa da molti avvocati, l’etica della professione si pone all’esterno della sfera degli obblighi giuridici, riguardando un comune sentire consuetudinario. Questa concezione è però oggetto di veloce trasformazione poiché le norme deontologiche sono sempre più spesso codificate mediante regolamentazioni formali.

Volendo fare un sintetico excursus di deontologia comparata rileviamo che negli USA esiste un codice di regole fin dal 1970; in Australia fin dal 1984; in Nuova Zelanda nel 1989; e in India, paese di tradizionale impianto giuridico consuetudinario, dal 1961. In Europa esiste, fin dal 1988, un codice deontologico redatto dal CCBE (Consiglio degli Ordini forensi europei), mentre l’Italia ha, come sappiamo, un codice scritto solo dal 1997.

Le regole di comportamento e le conseguenze della loro violazione erano fissate, fino al 2013, dalla vecchia legge professionale che in due sintetici articoli dettava il fondamento delle norme deontologiche.

Le regole di comportamento e le conseguenze della loro violazione erano fissate, fino al 2013, dalla vecchia legge professionale che in due sintetici articoli dettava il fondamento delle norme deontologiche. L’art. 12 imponeva agli avvocati la dignità e il decoro; l’art. 38 stabiliva che chi si renda colpevole di abusi o mancanze, o violi dignità e decoro, è sottoposto a procedimento disciplinare.

Partendo da queste norme il padre della deontologia italiana, Remo Danovi, scrisse un codice deontologico non ufficiale oltre dieci anni prima che il CNF, nel 1997, ne approvasse il testo. I notai lo avevano dal 1991. Lo stesso Danovi fu il primo ad insistere sulla giuridicità delle sue regole rispetto a terzi, ancorché non fossero ancora diffuse e formalizzate. Con L. 2012/247 si è poi consacrato il fondamento del potere disciplinare e dato forza imperativa alla deontologia.[1]

L’Autore, nel corso dei decenni, ha sostenuto la tesi della giuridicità di tali regole, in contrapposizione con la tesi opposta (all’epoca maggioritaria e, come abbiamo accennato, ancor oggi diffusa) che relegava la deontologia al campo della morale, o addirittura al territorio della buona educazione.

Una delle più felici intuizioni del Danovi riguarda la distinzione tra il contenuto delle norme (che può anche essere etico) e la loro natura, che in questo caso è giuridica perché queste norme sono inserite nell’ordinamento professionale.

La grande novità della legge professionale 31 dicembre 2012, n. 247 , oggi attuata con il nuovo codice deontologico, è quella di sciogliere ogni dubbio ritrovando (o meglio, inserendo) nella legge il fondamento del potere disciplinare e la natura delle regole. La natura delle regole deontologiche, infatti, può ricondursi al rinvio della legge formale, alle regole consuetudinarie, o all’autonomia privata di categoria. Secondo un’altra opinione nel dibattito intorno alla natura di tali norme vi sono almeno cinque tesi contrapposte. Ma tutti concordano nell’affermare che appartiene alla prima fascia (cioè quella delle norme giuridiche a pieno titolo) il codice dei notai, poiché la L. 27 giugno 1991, n. 220 assegnava al consiglio notarile il compito di elaborare il codice deontologico.

Pertanto, se una disposizione di legge prevede un codice deontologico e designa l’autorità decentrata chiamata a redigerlo, le successive norme di attuazione dovranno considerarsi giuridiche a tutti gli effetti senza necessità di indagare sulla loro natura consuetudinaria e a prescindere dal contenuto etico, che ne costituisce la base ma non riduce la forza imperativa.

La disposizione legislativa è oggi la legge ordinamentale che agli articoli 3, 35 comma 1, lett. d) e 65 sancisce definitivamente la natura giuridica del codice deontologico e delle regole in esso contenute, designando altresì nel CNF l’autorità pubblica chiamata a scriverlo e in seguito aggiornarlo (così forse mettendo fine alle invasioni dello stesso legislatore).

Questo aspetto non dovrebbe più essere oggetto di discussione, se è vero che le stesse sentenze del passato, quando definivano i codici deontologici come espressione dei poteri di autogoverno e/o di consuetudine, precisavano che il discorso reggeva perché detti codici non erano direttamente recepiti da norme di legge.  Adesso è certo, senza spazio per interpretazioni diverse, che le norme deontologiche sono giuridiche e sono sottoposte alla relativa interpretazione da parte dell’organo giurisdizionale: il CNF e poi, in sede di legittimità, la Corte di Cassazione.

Alcuni ravvedono una contraddizione in questo duplice ruolo del CNF (creatore delle norme, con potestà esclusiva, e poi suo interprete): lo stesso corpo professionale crea le proprie regole e poi le applica (esattamente come accade per i notai e i medici), con un controllo di legittimità che in ultima istanza compete alla Suprema Corte e uno di ragionevolezza e di rispetto dei principi costituzionali e comunitari che può essere rimesso alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia, come peraltro è già avvenuto in diverse occasioni. La concentrazione di poteri in capo al CNF risponde pertanto a esigenze logico/storiche e non sembra in grado di creare disfunzioni al sistema. Possiamo oggi affermare con sufficiente certezza che il codice deontologico racchiude norme di diritto, con contenuto etico, formatesi per consuetudine e oggi legificate. Finalmente la Suprema Corte, negli anni 2000, ha statuito che le regole contenute nei codici deontologici sono norme giuridiche obbligatorie che integrano il diritto oggettivo e che sono sottoposte al principio di ragionevolezza.

Il Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa (CCBE), fondato nel 1960, è un’associazione no-profit internazionale che, sin dalla sua creazione, si è sempre posta in prima linea per promuovere il punto di vista degli avvocati europei e difendere i principi giuridici fondanti la democrazia e lo Stato di diritto.

Il Consiglio è l’organo rappresentativo ufficiale degli ordini (Council of BARS) e delle associazioni giuridiche (Law Society) che, nel loro complesso, riuniscono circa un milione di avvocati europei.
Il CCBE ha adottato due testi basilari tra loro complementari e di natura assai diversa: la Carta dei Principi Fondamentali dell’Avvocato Europeo ed il Codice Deontologico degli Avvocati Europei. Lo scopo principale del Consiglio degli Ordini Forensi Europei (CCBE) è quello di garantire la rappresentanza degli ordini forensi che ne fanno parte, siano essi membri effettivi (vale a dire quelli dei paesi dell’Unione europea, dello Spazio economico europeo e della Confederazione svizzera), associati o osservatori, in tutte le questioni di comune interesse in merito all’esercizio dell’avvocatura, al rispetto dello Stato di Diritto e alla corretta amministrazione della giustizia nonché agli sviluppi rilevanti del diritto, sia a livello europeo che internazionale. (articolo III 1.a. dello Statuto del CCBE). A tale riguardo, il Consiglio è l’organo rappresentativo ufficiale degli ordini e delle associazioni giuridiche che, nel loro complesso, riuniscono circa un milione di avvocati europei.

La Carta, che enuncia dieci principi fondamentali, espressione del sostrato comune a tutte le norme nazionali e internazionali che disciplinano l’avvocatura, non è concepita come un codice deontologico ed è destinata ad essere applicata non solo negli stati membri, associati e osservatori del CCBE ma in tutt’Europa. La Carta mira, in particolare, a venire in aiuto agli ordini forensi che, nei paesi emergenti, lottano per far riconoscere la loro indipendenza, e a far comprendere sempre di più l’importanza del ruolo dell’avvocato nella società; essa si rivolge sia agli avvocati che agli organi di giustizia, nonché ai cittadini.[2]

Il Codice Deontologico degli Avvocati Europei risale al 28 ottobre 1988 ed è stato modificato tre volte, l’ultima delle quali nella sessione plenaria tenutasi ad Oporto il 19 maggio 2006. Si tratta di un testo vincolante per tutti gli Stati membri: tutti gli avvocati che sono iscritti agli ordini di tali paesi (a prescindere dal fatto che tali ordini siano membri effettivi, associati o osservatori del CCBE) sono tenuti a rispettare il Codice nell’esercizio delle loro attività transnazionali all’interno dell’Unione europea, dello Spazio economico europeo e della Confederazione svizzera nonché degli stati associati e osservatori.

“In una società fondata sul rispetto della giustizia, l’avvocato riveste un ruolo speciale. Il suo compito non si limita al fedele adempimento di un mandato nell’ambito della legge. L’avvocato deve garantire il rispetto dello Stato di Diritto e gli interessi di coloro di cui deve difendere i diritti e le libertà; l’avvocato ha il dovere non solo di difendere la causa ma anche di essere il consigliere del proprio cliente. Il rispetto della funzione professionale dell’avvocato è una condizione essenziale dello Stato di diritto e di una società democratica” (Codice Deontologico degli Avvocati Europei del CCBE, articolo 1.1).

Vi sono dei principi fondamentali che, pur con minime variazioni nei vari sistemi giuridici, sono comuni a tutti gli avvocati europei. Tali principi fondamentali sono alla base di vari codici nazionali e internazionali che disciplinano la deontologia forense. Gli avvocati europei sono soggetti a tali principi, essenziali per la buona amministrazione della giustizia, l’accesso alla giustizia e il diritto ad un equo processo, come prescritto dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. Gli ordini forensi, i giudici e i tribunali, i legislatori, i governi e le organizzazioni internazionali devono far rispettare e tutelare tali principi essenziali nell’interesse generale. I principi essenziali dell’avvocato sono, in particolare: (a) indipendenza e libertà di garantire la difesa del proprio cliente; (b) rispetto del segreto professionale e della riservatezza controversie oggetto del mandato; (c) prevenzione dei conflitti d’interesse tra vari clienti o tra il cliente e l’avvocato stesso; (d) dignità, onorabilità e probità; (e) lealtà verso il cliente; (f) correttezza in materia di onorari; (g) competenza professionale; (h) rispetto verso i colleghi; (i) rispetto dello Stato di Diritto e contributo alla buona amministrazione della giustizia; e (j) autoregolamentazione dell’avvocatura.

La direttiva sul diritto di stabilimento (Direttiva 98/5/CE recepita in Italia con il D. Lgs. 2 febbraio 2001 n. 96) consente agli avvocati “comunitari” la possibilità di svolgere stabilmente l’attività forense in ogni Stato europeo con il proprio titolo professionale di origine. L’avvocato che abbia esercitato in maniera effettiva e regolare la professione in Italia per tre anni può chiedere al proprio Consiglio dell’Ordine la dispensa della prova attitudinale e, se dispensato, può iscriversi nell’albo degli avvocati e esercitare la professione con il titolo di avvocato.

La legge professionale forense prevede la possibilità d’iscrizione, in un’apposita sezione speciale dell’Albo, degli avvocati “stabiliti”, cioè consente l’esercizio in Italia della professione forense da parte di cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea che abbiano conseguito nel paese d’origine l’abilitazione alla professione.

E’ una norma che, nel rispetto dei principi comunitari della libera circolazione dei lavoratori e del diritto di stabilimento, vuole tutelare coloro che, avendo conseguito il titolo professionale nel proprio Paese europeo d’origine, decidano di svolgere la professione in altro Stato membro dell’Unione.

Il principio, giusto e corretto, ha tuttavia avuto negli ultimi anni un’applicazione distorta: molti laureati in giurisprudenza italiani, grazie a percorsi integrativi agevolati, hanno ottenuto in Spagna e in Romania l’omologazione della propria laurea italiana al corrispondente titolo spagnolo o rumeno, per poi fare ritorno in Italia e chiedere l’iscrizione nella sezione speciale degli avvocati stabiliti (il 92% degli iscritti nelle sezioni speciali degli avvocati stabiliti degli Albi dell’Ordine Forense è di nazionalità italiana e tra questi l’83% ha conseguito il titolo in Spagna, il 4% in Romania: dati in Rassegna Forense, n. 3-4/2014, p. 793).

Negli ultimi anni il nostro Consiglio ha ripetutamente rigettato richieste d’iscrizione nella sezione speciale degli avvocati stabiliti presentate da cittadini italiani in possesso del titolo spagnolo di “abogado” o di quello rumeno di “avocat”; e ciò ha convintamente fatto facendo leva sulla giurisprudenza, anche specifica del C.N.F., in materia di abuso del diritto.

Oggi – dopo la sentenza n. 28340 del 22 dicembre 2011 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il provvedimento del 23 aprile 2013 dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e la sentenza del 17 luglio 2014 della Corte di Giustizia Europea – il rigetto di tali domande d’iscrizione ha margini molto più ristretti.

Innanzitutto, l’avvocato “stabilito” non può in alcun modo spendere in Italia il titolo di “avvocato”, ma esclusivamente quello conseguito nel Paese europeo d’origine (art. 4 del d.lgs. n. 96/2001): “abogado”, nel caso di laurea omologata in Spagna, oppure “avocat”, nel caso in cui la laurea sia stata omologata in Romania.

Va precisato che il titolo italiano non può essere speso nemmeno in forma abbreviata (per esempio, “avv.”) e non può dunque essere utilizzato negli atti, nelle lettere, nella carta intestata e nell’indirizzo e-mail o pec (cfr. parere del C.N.F. n. 72 del 22 ottobre 2014); inoltre, la qualifica di “stabilito” deve essere chiaramente indicata, e non può essere limitata alla “sola indicazione, dopo il titolo di avvocato, della lettera ‘S’ ovvero dell’abbreviazione ‘stab.’, trattandosi di segni che la gran parte del pubblico non ha strumenti conoscitivi per interpretare” (sentenza del C.N.F. n. 115 del 26 settembre 2014).

Inoltre, per l’esercizio delle prestazioni giudiziali “l’avvocato stabilito deve agire d’intesa con un professionista abilitato a esercitare la professione con il titolo di avvocato, il quale assicura i rapporti con l’autorità adita o procedente e nei confronti della medesima è responsabile dell’osservanza dei doveri imposti dalle norme vigenti ai difensori. L’intesa deve risultare da scrittura privata autenticata o da dichiarazione resa da entrambi al giudice adito o all’autorità procedente, anteriormente alla costituzione della parte rappresentata ovvero al primo atto di difesa dell’assistito” (art. 8 del d.lgs. n. 96/2001).

Al riguardo, con i propri pareri n. 32/2012, 53/2013 e 68/2014, il C.N.F. ha chiarito che “l’obbligo di esercitare la professione d’intesa con un avvocato italiano implica che non vi possa essere un affiancamento in via generale a un avvocato abilitato, ma che tale integrazione di poteri debba essere fornita per ogni singola procedura; di conseguenza, l’avvocato ‘affiancante’ non può e non deve essere indicato con efficacia generale, ma in relazione alla singola controversia trattata”.

Per quanto riguarda l’avvocato “affiancante”, con il quale lo “stabilito” deve agire d’intesa, egli – come chiarito dal C.N.F. con il parere n. 9 del 28 marzo 2012 – “non è obbligato a presenziare, ovvero assistere alle udienze alle quali l’avvocato stabilito partecipa; si osserva tuttavia che l’intesa implica una forte responsabilità dell’avvocato italiano per quanto attiene al controllo dell’attività dell’avvocato stabilito, pur in assenza della condivisione del mandato difensivo”.

Gli aspetti deontologici che afferiscono alla figura dell’avvocato in Europa attingono non solo al Codice Deontologico nazionale ed europeo, ma anche a prassi e consuetudini, all’etica e alla morale, alla buona educazione, ultronee rispetto alla regolamentazione formale. La connaturata autodeterminazione dell’Ordine forense nazionale, che ha potere disciplinare e sanzionatorio in caso di violazione degli obblighi giuridici derivanti dalla portata imperativa del Codice Deontologico stesso, ne rappresenta le fondamenta.

La deontologia si sostanzia sia verso il cliente che verso i colleghi che verso terzi ed altri professionisti e ne condiziona i rapporti creando una difesa già in via preventiva (modulistica, conferimento incarico ed accordi economici, polizza assicurativa, etc.).


[1] Il diritto degli altri. Storia della deontologia. Il volume di Remo Danovi – Studio Legale Danovi & Partners

[2]  Welcome to CCBE – CCBE; Presidency – CCBE; Ufficio di Rappresentanza del CNF di Bruxelles – Bollettino sui servizi legali nella UE 1-2022.pdf (ordineavvocatinuoro.it); EN_Newsletter_95.pdf (ccbe.eu)

Federica Federici

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