Ciò che moltissimi condòmini e amministratori di condominio non sanno è che sia i singoli condòmini che il condominio rappresentato nella sua totalità dall’amministratore sono considerati come consumatori dall’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza, sia della Corte di Cassazione che delle Corti di merito.
Per quanto riguarda i singoli condòmini, ovviamente, ciò vale qualora essi siano persone fisiche e non persone giuridiche intestatarie di appartamenti.
Circa la qualifica di consumatori dei condòmini, la Corte di Cassazione fin dall’ordinanza n.10086 del 2001 ha ritenuto che “l’amministratore (di condominio) agisce in qualità di mandatario con rappresentanza dei vari condòmini, i quali debbono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività professionale od imprenditoriale”.
In ordine invece alla qualifica di consumatore del condominio rappresentato, ovviamente, dall’amministratore, va invece evidenziato come tale qualifica sia stata attribuita solo più recentemente dalla giurisprudenza, la quale per lungo tempo aveva individuato nel condominio la natura, piuttosto ibrida ed atipica per quelle che comunque sono le caratteristiche del condominio stesso, di “ente di gestione”.
Per dipanare la questione attinente, appunto, alla natura del condominio, è intervenuta la funzione dirimente ed interpretativa della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, la quale con la sentenza n.9148 dell’08/04/2008 ha chiarito come la giurisprudenza di merito abbia definito il condominio come ente di gestione solo “per dare conto del fatto che la legittimazione dell’amministratore non priva i singoli partecipanti della loro legittimazione ad agire in giudizio in difesa dei diritti relativi alle parti comuni; di avvalersi autonomamente dei mezzi di impugnazione; di intervenire nei giudizi intrapresi dall’amministratore, ecc…”
In realtà, ha continuato la Cassazione a SS.UU. poc’anzi citata, gli enti di gestione in senso tecnico sono ben altra cosa rispetto alla figura del condominio: per essi deve intendersi, infatti, un soggetto dotato di personalità giuridica pubblica, da un lato, e di autonomia patrimoniale dall’altro (intesa quale titolarità delle partecipazioni azionarie e del fondo di dotazione di cui dispongono).
“Orbene – ha continuato la Corte di Cassazione nel proprio ragionamento – nonostante l’opinabile rassomiglianza della funzione – il fatto che l’amministratore e l’assemblea gestiscano le parti comuni per conto dei condomini, ai quali le parti comuni appartengono – le ragguardevoli diversità della struttura dimostrano l’inconsistenza del ripetuto e acritico riferimento dell’ente di gestione al condominio negli edifici. Il condominio, infatti, non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni; la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini; agli stessi condomini sono ascritte le obbligazioni per le cose, gli impianti ed i servizi comuni e la relativa responsabilità; le obbligazioni contratte nel cosiddetto interesse del condominio non si contraggono in favore di un ente, ma nell’interesse dei singoli partecipanti”.
In tal senso e con l’appena indicata chiarificazione terminologica va allora letta la sentenza del 14/02/2012 del Tribunale di Genova, nella quale è testualmente affermato che “la caratteristica essenziale del soggetto professionista – escluso dalla tutela del consumatore – è la predisposizione strutturale dell’attività di impresa professionale, o , almeno, economica. Il condominio, al contrario, è una mera organizzazione di comproprietari dotati di stabile rappresentanza per atti specifici relativi ad oggetti specifici. Ne consegue che la qualità di consumatori che spetta ai singoli condomini si estende al condominio – ente di gestione”.
Sulla base delle sopra indicate sentenze deriva quindi fondamentalmente che anche il condominio nella figura del suo amministratore, in quanto mandatario di condòmini che sono qualificati come consumatori, riveste anch’esso la figura di consumatore nei rapporti contrattuali che possono insorgere e di cui esso è parte.
Mi riferisco, per mero esempio, ai contratti stipulati dal condominio (rectius, dall’amministratore) per la manutenzione di impianti (di riscaldamento, elettrico, ascensore), ai contratti relativi alla fornitura di luce, gas, acqua, ai contratti di appalto per le opere di ristrutturazione delle parti comuni degli edifici, ecc…
L’acquisizione della qualifica di consumatore anche per il condominio non è di poco conto, né è un mero appellativo che si aggiunge senza significato, perché in termini giuridici significa che al condominio contraente contrattuale si applica la più favorevole e protezionistica disciplina contenuta nel Codice del Consumo rispetto a quella tout court prevista nel Codice Civile.
La disciplina del Codice del Consumo è infatti finalizzata a tutelare colui che viene considerato quale “contraente debole” del rapporto giuridico ed anche il condominio, si ribadisce, può giovarsi di tale disciplina.
Nell’ambito della giurisprudenza di merito si citeranno giusto due casi che hanno appieno confermato i concetti sopra espressi nell’ambito, in entrambe le fattispecie, di un contratto stipulato dall’amministratore per la manutenzione dell’ascensore.
In entrambi i casi il condominio aveva deciso di recedere dal contratto di manutenzione anticipatamente rispetto alla sua naturale scadenza e la società incaricata della manutenzione aveva applicato una clausola contrattuale che prevedeva comunque l’obbligo per il condominio di versare un importo pari all’intera prestazione non goduta.
Sia il Tribunale di Arezzo con la sentenza n.125 del 14-17/02/2012, che il Tribunale di Perugia con la sentenza del 23/01/2012, considerando l’amministratore quale consumatore, hanno ritenuto la clausola come vessatoria ai sensi della disciplina contenuta nei vecchi artt.1469 bis, ter e ss. c.c., poi trasfusi negli artt.33 e ss. del Codice del Consumo.
In particolare, per il Tribunale di Arezzo “la Suprema Corte ha infatti deciso in analoga vicenda che “…il contratto di manutenzione dell’impianto elevatore installato nell’immobile del condominio venne stipulato dall’amministratore del condominio, ma in rappresentanza dei condòmini. Infatti il condominio è un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti (Cass. n.826/1997; Cass. n.7544/1995). In particolare il rapporto contrattuale oggetto di causa, relativo ad una prestazione di servizi, non vincola l’amministratore in quanto tale, ma i singoli condomini. Ne consegue che, poiché i condomini vanno senz’altro considerati consumatori, essendo persone fisiche che agiscono, come nella specie, per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, anche al contratto concluso dall’amministratore del condominio con il professionista, in presenza degli altri elementi previsti dalla legge, si applicano gli artt.1469 bis e ss. c.c. (C. Cass. ord. Sez.III, n.10086 del 24/07/2001)”.
Le due sentenze di merito sopra indicate, però, pur partendo dall’applicazione dei medesimi principi sia in ordine alla classificazione ed alla natura di consumatore del condominio, che dei medesimi criteri ricognitivi e qualificatori dell’abusività e vessatorietà della clausola contrattuale impugnata, sono pervenute a conclusioni parzialmente diverse sotto il profilo c.d. economico.
Ai sensi e per gli effetti della disciplina prevista dall’art.36, co.1, del Codice del Consumo, al contratto contenente una clausola successivamente dichiarata vessatoria viene applicata una vera e propria nullità di protezione, così come espressamente indicato nel titolo dello stesso articolo.
Ciò significa, citando testualmente il co.1 dell’articolo appena menzionato che “Le clausole considerate vessatorie ai sensi degli artt.33 e 34 sono nulle, mentre il contratto rimane valido per il resto”.
Pur applicando alla lettera tale norma, il Tribunale di Perugia ha concluso per la non debenza di alcunché da parte del condominio alla società incaricata dei lavori, mentre il Tribunale di Arezzo ha invece stabilito che “ad avviso di questo giudicante…la nullità della clausola in questione non comporta sic et simpliciter un potere di disdetta libero da qualunque vincolo e/o obbligo.
A tale conclusione si perviene considerando che a fronte del diritto di recesso unilaterale stabilito dall’art.1373 c.c. permane comunque, in combinato disposto con l’art.1671 c.c., in cui viene previsto che il committente debba “tenere indenne l’appaltatore…del mancato guadagno” un obbligo di risarcimento. Tale lettura è confermata dall’interpretazione della Cassazione che ha pacificamente sussunto la figura del contratto di prestazione continuativa di servizi con quella del contratto d’opera (C. Cass.8254/1997; C. Cass.4783/1983) riconoscendo all’appaltatore un profilo di indennizzo risarcitorio. Tale risarcimento deve essere commisurato, seppure in via equitativa, all’importo dei canoni ancora a scadere e sulla base di comuni dati di esperienza economica può essere fissato in una quota pari al 20% degli stessi”.
A parere della scrivente, la decisione del Tribunale di Arezzo appare criticabile in relazione a quest’ultimo punto in cui, al termine del giudizio, il Giudice ha comunque previsto un, seppur contemperato, obbligo risarcitorio da parte del condominio in favore della ditta appaltatrice.
In primo luogo va considerato che l’art.36, co.1, del Codice del Consumo pare contenere una norma imperativa, non suscettibile di deroghe o di applicazioni, per così dire “attenuate”.
In secondo luogo giova probabilmente ricordare quali siano i rapporti applicativi fra il Codice del consumo ed il Codice Civile.
Ai sensi infatti dell’art.38 del Codice del Consumo la disciplina codicistica rimane in vigore per regolare:
a) quei rapporti tra professionista e consumatore che non trovino specifica contemplazione nel Codice del Consumo;
b) di risulta, tutti i c.d rapporti “business to business”, ovvero i rapporti instaurati fra due soggetti che devono considerarsi entrambi come professionisti ai sensi della definizione di professionista contenuta nello stesso Codice del Consumo.
Di conseguenza, la disposizione contenuta nell’art.1671 c.c. (l’obbligo risarcitorio posto a carico del committente in caso di recesso) sarebbe valida:
a) nel caso di un contratto di appalto stipulato fra due società o fra una società ed un ente pubblico che operi in regime di diritto privato;
b) al limite, nel caso di un rapporto “business to consumer”, ove però la clausola contrattuale non sia stata ritenuta quale vessatoria, bensì come del tutto regolare.
Ai fini della regolarità peraltro, ex artt.33 e 34 del Codice del Consumo, della clausola introdotta nel contratto stipulato dovrebbe essere provata l’assenza del significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti e che la stessa clausola sia stata oggetto di trattativa individuale.
Nella sentenza n.125/2012 del Tribunale di Arezzo, invece, la clausola è stata dichiarata dallo stesso Giudicante come vessatoria e dunque avrebbe dovuto essere caducata tout court senza alcun tipo di emolumento in favore del professionista, così come più correttamente deciso nella sentenza del 23/01/2012 del Tribunale di Perugia.
Avv. Alessia Zittignani