Cass. Sez. Un., 6 novembre 2020, n. 24896 (all. n. 1).
La Corte nel decidere sulla applicabilità delle norme della legge professionale e, in mancanza, del codice di procedura civile ha stabilito che nel procedimento disciplinare a carico degli Avvocati trovano applicazione, quanto alla procedura le norme particolari che, per ogni singolo istituto, sono dettate dalla legge professionale e in assenza quelle del codice di rito e da tale principio ha fatto conseguire la insindacabilità in sede di legittimità della decisione sulla riunione dei procedimenti, adottata dal Consiglio Nazionale Forense, per essere detta scelta rimessa alla valutazione discrezionale del Giudice.
Massime precedenti: Cass. Sez. Un., 2010, n. 20773
Cass. Sez. Un., 3 novembre 2020, n. 24379 (all. n. 2).
La Corte ha ritenuto che la disponibilità di svolgere il tirocinio professionale da praticante avvocato, in concomitanza con il corso di studio per il conseguimento della laurea in giurisprudenza, è riconosciuta, dall’art. 41, comma sei, lettera d) della legge n. 247 del 2012, agli studenti iscritti all’ultimo anno del corso di laurea da intendersi, però, come ultimo anno del corso legale al quale si risulti essere regolarmente iscritti, con conseguente esclusione degli studenti fuori corso, restando irrilevante la eventuale diversa disciplina contenuta nelle convenzioni stipulate, ai sensi dell’art. 40 della stessa legge, tra i Consigli degli Ordini degli Avvocati e le Università, trattandosi di fonti pattizie inidonee a derogare il precetto legislativo.
Hanno ritenuto i Giudici di legittimità non essere smentita tale interpretazione ma, al contrario, indirettamente avvalorata dal d.m. n. 70 del 2016 che, all’art. 5, comma 4, fa riferimento alla «durata legale del corso» proprio, con riferimento allo studente praticante che non consegua il diploma di laurea «entro i due anni successivi», imponendogli di «chiedere la sospensione del tirocinio per un periodo massimo di sei mesi, superato il quale, se non riprende il tirocinio, è cancellato dal registro e il periodo di tirocinio compiuto rimane privo di effetti».
Cass. Sez. Un., 3 novembre 2020, n. 24377 (all. n. 3)
I Giudici di legittimità chiamati a pronunciarsi su plurime incolpazioni disciplinari per violazione dei doveri di correttezza, probità e dignità, per avere l’Avvocato dichiarato al cliente di aver svolto attività giurisdizionali non avviate, riscuotendo compensi non dovuti, senza rilasciare la prevista ricevuta fiscale, hanno affermato, sulla base della consolidata giurisprudenza della stessa Corte, che nel procedimento disciplinare trovano applicazione, quanto alla procedura, le norme particolari che, per ogni singolo istituto sono dettate dalla legge professionale e, in mancanza, quelle del codice di procedura civile, mentre le norme del codice di procedura penale trovano applicazione esclusivamente nell’ipotesi in cui la legge professionale vi faccia espresso rinvio, ovvero sorga la necessità di applicare istituti che hanno regolamento esclusivamente nel codice di procedura penale.
In conseguenza di quanto affermato la Corte ha ritenuto che nel procedimento disciplinare la comparizione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense per la discussione del ricorso è atto del professionista incolpato, ricollegabile non all’esercizio dell’attività professionale quanto, piuttosto, alla personale posizione di questi, quale soggetto sottoposto alla giurisdizione disciplinare, con la conseguenza che ha diritto ad ottenere il rinvio dell’udienza in presenza di una situazione di legittimo impedimento, ed ha ritenuto non ricorrere esso in presenza di una qualsiasi situazione di difficoltà ma solo qualora l’interessato non possa recarsi fisicamente in udienza, ovvero non sia nella condizione di parteciparvi dignitosamente per l’esercizio del diritto costituzionale di difesa, così come previsto dall’art. 420 ter, cod. proc. pen.
L’assenza pertanto di una impossibilità effettiva ed assoluta non giustifica la richiesta di un rinvio.
Cass. Sez. Un., 24 giugno 2020, 12476 (all. n. 4)
La Corte nel pronunciare sulla domanda revocatoria (ordinaria o fallimentare) e, in particolare, sulla ammissibilità della stessa avanzata nei confronti di un fallimento ha enunciato i seguenti principi affermando che: a) oggetto della domanda non è il bene in sé ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante assoggettabilità del bene ad esecuzione; b) il bene dismesso con l’atto revocando viene in considerazione, rispetto all’interesse dei creditori dell’alienante, soltanto per il suo valore; c) ove l’azione costitutiva non sia stata dai creditori dell’alienante introdotta prima del fallimento dell’acquirente del bene che ne costituisce oggetto, essa non può essere esperita con la finalità di recuperare il bene alienato alla propria esclusiva garanzia patrimoniale, trattandosi di un’azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente e non può avere l’effetto di sottrarre il bene all’asse fallimentare, cristallizzato al momento della dichiarazione di fallimento; d) i creditori dell’alienante e per essi il curatore fallimentare restano tutelati dalla garanzia patrimoniale generica delle regole del concorso, nel senso che possono insinuarsi al passivo del fallimento dell’acquirente per il valore del bene oggetto dell’atto di disposizione astrattamente revocabile, alla condizione però che il fatto generatore della pretesa, identificabile nell’atto lesivo della garanzia patrimoniale, sia anteriore alla sentenza di fallimento, demandando in tal caso al Giudice delegato anche la delibazione della pregiudiziale costitutiva.
Massime precedenti: Cass., 23 novembre 2018, n. 3416; Cass., 8 marzo 2012, n. 3672; Cass., 12 maggio 2011, n. 10486.